Le donne viste dalle donne

Il ruolo della donna e la “femminilità”

© DameVerte Photography Studio

In questi ultimi giorni, dopo un altro caso di femminicidio avvenuto a Palermo (l’assassinio di una ragazzina di soli 17 anni), riflettevo sul significato che la nostra società dà alle donne e al “femminile”.

Se pensiamo a come si è sviluppata la nostra storia e su cosa ponga le fondamenta la nostra cultura, ci potremo rendere conto di come l’uomo si sia posto, da sempre, come “elemento centrale”: da subito si è “auto-presentato” come “neutro”, la “misura” con cui tutto il resto si deve confrontare. E’ lui a definire ciò che lo circonda ed è lui a porre il “femminile” come “Altro”, come “mancanza”, in quanto diverso da sé. Lui è l’Uomo e noi donne siamo state confinate e definite “genere”.

Fin dalla nascita del linguaggio -patriarcale e basato, quindi, su desinenze maschili- la donna viene sottomessa al “maschile” e perde la sua identità diventando solo “elemento”.
I ruoli femminili sono stati, da sempre, delineati dall’uomo e sono costruzioni che, purtroppo, anche le donne stesse hanno fatto proprie; infatti, faticano a liberarsi dalla condizione storica di “complemento”, continuamente esaltate dalle parole maschili come “oggetti” o come “insignificanti”.

Ci basti pensare al significato che, ai giorni nostri, diamo alla parola FEMMINILITA’: un insieme di valori (considerati propri dell’essere donna) quali la grazia, la capacità di relazionarsi, la cura, la tranquillità, l’abilità di destreggiarsi fra più compiti (anche in contemporanea), la bellezza.
Ma… siamo sicuri di poter parlare di caratteristiche tipiche, invece che soggettive?
E perché, poi, tutte queste “doti”, per lo più di sottomissione, devono essere considerate positive per una donna?
Non sono anche questi degli stereotipi repressivi che permettono alla società maschile (e maschilista) di continuare a “darci” attitudine e forma, ad imporci come ESSERE, insomma?

Allora perché, quando una donna lavora, c’è chi guarda ancora che il compito venga portato a termine con “femminilità”?
Sul lavoro, in un uomo, si guardano il talento e la capacità di raggiungere gli obiettivi proposti; che valore possiamo continuare a dare alle donne se, in loro, si guardano prioritariamente la “femminilità” e il modo (necessariamente carino e aggraziato) di lavorare, invece delle loro potenzialità?
Così viene definito, con “valore femminile aggiunto”, un semplice passaggio: spostiamo il ruolo subordinato di cura e di relazione della donna, dall’ambito privato a quello pubblico, come se fossero le uniche capacità a distinguerci da quegli uomini che, spesso, continuano a volerci mute,  silenziose, al loro fianco.

One Comment

  1. Analisi eccellente e articolo fantastico…

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